"La pipa di Batone" - Illustrazioni di Niccolò Cannicci per l'omonimo racconto di Renato Fucini

 












Niccolò Cannicci

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La pipa di Batone

Lo scoppio d'una tempesta di grida e di tonfi sulla tavola, che partiva da un gruppo di quattro allegri giovinotti, l'uno figlio di Batone e gli altri amici di casa, era la chiusa obbligatoria d'ogni partita di calabresella; ma questa volta il baccano fu tanto forte che il vecchio Batone, mezzo addormentato nel canto del fuoco, fece un tale scossone che, battendo la nuca nella mensola della cappa, gli cadde la pipa che gli ciondolava dalla bocca, andando a rompersi in cento pezzi sul piano del focolare.
«Eh! maledetto voi altri e la vostra calabresella!», gridò Batone, buttandosi carponi a raccattare i frammenti della pipa; ma la sua imprecazione restò affogata sotto un nembo di:
«Tutte nostre, se buttavi l'asso quando ti ci ho chiamato!».
«E della napoletana a còri che te ne volevi fare?»
«Te, piuttosto...»
«Ha ragione lui!»
«Nossignore, perché quando gli ho calato l'asso terzo...»
«Ma allora mi ci dovevi battere!»
«Sì, sì!»
«No, no!»
E giù, un altro diluvio di tonfi, urli e imprecazioni più grosso del primo.
«Benedetto voi altri e le vostre gole intremotate! Vi volete chetare, sì o no? Ecco, guardate che bel sugo!», esclamò la Carlotta, nuora del vecchio Batone. «Questa povera creaturina dormiva che era un amore, e ora sentite che bella musica! E ninna e ninna e nanna...» E così canterellando si mise a cullare sulle ginocchia una bella bambocciona grassa e fresca come una rosa, la quale sbertucciandosi lo scuffiotto di lana gialla univa i suoi strilli alle grida dei giocatori, formando un casa del diavolo da sgomentare un campanaro di professione.
Finalmente si chetarono, ma dopo avere esaurito affatto la questione durante la quale ognuno aveva detto o creduto di dire un sacco d'eccellenti ragioni, lasciando però nella mente dei compagni precisamente il tempo che vi avevan trovato.
«O di che cercate costì nella cenere, babbo?», domandò Cencio che nel voltarsi aveva visto il vecchio razzolare a capo basso, inginocchiato sul sodo del camino.
«Di che cerco, eh?», rispose Batone, fra il desolato e lo stizzito, «di che cerco, eh? Eran diciott'anni che ci fumavo!»
«Vi s'è rotta la pipa! o come mai?», domandò uno degli amici.
«Diciott'anni!», brontolò Batone con un sospiro; «grumata che era una delizia!»
«Povero nonno! o com'è andata?», domandò anche la Carlotta, sospendendo la sua ninna-nanna.
«Com'è andata! È andata che se vi si seccasse la gola a quanti siete, non sarebbe il vostro avere... Eh, sie! Il pezzo più grosso eccolo qui! Va' all'inferno anche te!» E con un calcio mandò nel fuoco gli avanzi della pipa e si rincantucciò di nuovo taciturno nel fondo della sua panca.
La bambina aveva ripreso sonno, la ninna-nanna era cessata, ed al rumore di pochi momenti fa era succeduto un profondo silenzio. I quattro giovani si guardavano fra loro, guardavano il vecchio e quindi la Carlotta, quasi interrogandola con lo sguardo sulla catastrofe della pipa. Alle quali mute interrogazioni la Carlotta rispondeva con un movimento della testa e degli occhi che voleva dire:
«Non ne so nulla nemmen'io; stiamo zitti, se no si fa troppo dispiacere a questo pover'omo».
Tutti tacquero per alcuni altri momenti, e Batone mandò fuori a breve intervallo due lunghi sospiri, dopo i quali, quasi rispondendo a una domanda del suo pensiero, esclamò con tristezza:
«Se ci ero affezionato!». Eppoi rivolgendosi agli amici: «Vedete, giovinotti; se mi fosse cascato un tegolo sulla testa, sarei crepato, sì, ma avrei patito meno».
«Eh, lo capisco!»
«Io mi metto ne' vostri piedi.»
«Anch'io.»
«Figuratevi io!», rispondevano uno dopo l'altro i quattro giovani che, sentendo un certo solletico di riso, avevano però nel fondo dell'animo una certa compassione del vecchio, perché fino da bambini erano avvezzi ad amare quella mite e robusta natura di popolano, e perché, correndo col pensiero alla pipa che tutti avevano in bocca, comprendevano abbastanza il suo dolore.
«Non vi starò a dire, perché tutti fumate e ve lo figurerete», riprese Batone, «se in una pipa di diciott'anni ci si fuma bene! Ma quello che più di tutto m'addolora è di dover dire addio a un oggetto che mi rammentava troppe cose... troppe! La comprai l'anno della piena, e la rinnovai per l'appunto quella mattina... 'Gnamo, 'gnamo, guardate dove mi fate entrare; Noe, noe, via, lasciatemi stare; accidenti alla calabresella, a chi l'ha inventata e a' vostri urlacci dannati!»
«Giù, giù, Batone, raccontate, raccontate!», chiesero ad un tempo i tre amici.
«Che volete che vi racconti, ragazzi miei? Son vecchio, ecco quello che vi posso raccontare; son vecchio, e non son più bono a nulla. Ma quand'ero ne' mi' cenci... Un gigante non son mai stato, si vede ancora; ma con queste braccia che ora paion du' ossi vestiti di pelle, ho fatto qualche cosa anch'io, e a que' giorni, omo per omo, ve lo giuro sul capo di quella creatura, a Batone, non gli ha fatto mai paura nessuno, mai! Prepotenze no; ma mosche sul naso, per grazia di Dio e del mi' fegato, mi ce ne son lasciate posar sempre poche, ma poche davvero. E dite pure che quando voi altri sarete arrivati a fare la metà di quel che ho fatto io... Basta; ho fatto quello che ho potuto, e quel che ho fatto, Dio mi vede nel core, l'ho fatto sempre a bòn fine, e per aver voluto bene a tanti, che poi se m'hanno potuto far del male, se ne sono ingegnati». Si guardò le braccia, scosse la testa sorridendo malinconicamente, e con voce stanca continuò: «Mòio povero, ma se non mi fosse toccato altro, di questo me ne vanto, all'età di settant'anni sonati che mi trovo sul groppone, posso portare il cappello alto e dimolto; e tanti signori, ma proprio di quelli di garbo, quando m'incontrano per la strada non hanno scrupolo né punto né poco a fermarmi e a stringer la mano, come dicon loro, al vecchio galantòmo».
I quattro giovani a poco a poco si erano tirati con le seggiole intorno al focolare, fissando in silenzio con aria mista di curiosità e di trista compiacenza, l'abbronzata faccia del vecchio, ne' cui occhi, allorché riandava i tempi passati, guizzava agile e fiera un'ultima scintilla di fuoco giovanile. Ed anche la Carlotta, che dopo aver posata la bambina nella culla si era accostata al camino per mettere una palettata di fuoco nello scaldino, sentendo le ultime parole del vecchio, partecipò all'attenzione degli uomini, adagio adagio si pose a sedere sull'altra panca del camino, facendo macchinalmente la calza, e guardò il vecchio silenziosa ed attenta.
Batone, che aveva alquanto rallegrata la faccia rammentando gli anni della sua robustezza, ritornò cupo ad un tratto, e dopo esser rimasto alcuni momenti con la testa fra le mani, triste e silenzioso come coloro che si preparavano ad ascoltarlo, alzò la faccia sgomenta, e fissando lo sguardo sopra una seggiola disoccupata che era rimasta in un canto della stanza, parlò:
«L'Agnese voi altri l'avete conosciuta tutti».
«Se l'abbiamo conosciuta!»
«Era una buona creatura; ma si vede che era nata sotto cattiva luna. E su' primi tempi era stata anche fortunata. Sposò quel maniscalco, Giacinto delle Morette, che poi gli morì tisico: ma quando lo prese aveva fior di quattrini, salute da vendere e la bottega sempre piena, perché ferrava che, come lui, bisognava girare dimolte miglia eppoi fermarsi lì. E che bella sposa s'era fatta!»
«Bella!», disse Tonio.
«E che belle creature che aveva!», osservò la Carlotta.
«Povera figliola! era destinato che non se le dovesse godere», continuò Batone. «E quel che è vero bisogna dirlo, che per la su' bimbina maggiore ci aveva un gran debole; e si vede che Gesù benedetto la volle visitare, perché sul più bello, quando se la teneva come una reliquia, perché cominciava già a saper leggere quasi come il sor Annibale e a mettere in carta anche una lettera, la bolla gliela portò via come uno ruberebbe la pisside di sull'altare.»
Una zanzara s'era posata sulla fronte della piccina, la quale senza destarsi, alzò una manina e si percosse dove sentiva pinzare. E siccome la Carlotta si voltò a guardarla riscotendosi come se una vipera le fosse passata tra i piedi, Batone le disse:
«Dio voglia che tutti i su' mali somiglino a quello che gli ha fatto quell'animale».
«Dio lo voglia!», rispose la Carlotta, e si chinò sulla culla a respirare il fiato della sua creatura.
«Dunque, già», riprese Batone, «quella bambina gli morì... gli morì com'essere alle nove e mezzo di stamattina... Che giornata fu quella, ragazzi miei! voi altri eri a lavorare foravia e non ve lo potete mai figurare... Gli morì alle nove e mezzo, come dicevo, si messe subito a pulirsela e a vestirsela da sé, che Dio guardi a avergli detto: "Lasciate fare a noi"; alle due aveva finito d'accomodarla co' su' fiori del su' orto e ogni cosa, e mezzo minuto dopo la raccattavano giù nel mezzo di strada con la testa fracassata, che venne di sotto in un àmmenne a capo fitto a sbacchiare sulla breccia stesa d'allora. Il Signore abbia misericordia dell'anima sua!»
Batone tacque; nessuno degli ascoltatori disse parola, perché ognuno conosceva l'accaduto; soltanto si voltarono tutti in un tempo verso la porta contro la quale una folata di scirocco frustava la pioggia che veniva giù a torrenti. Si voltò anche Batone, e dopo aver dato un'occhiata alla solita seggiola:
«Era una serata come questa», proseguì. «Eccola laggiù! mi par d'averla sempre davanti agli occhi, Cencio, la mi' Rosa, la tu' povera mamma. Pareva che da un momento all'altro ci dovesse cascare la casa addosso... un vento! un'acqua! un buio!... Lei era lì in un cantuccio su quella seggiola laggiù colla spalliera troncata, che fra uno sbadiglio e l'altro dava de' punti alle toppe del mi' pastrano vecchio, e a ogni ventata più forte si scoteva e mi guardava e mi diceva: "Batone, o che sarà di noi? Dio ce la mandi bona! senti l'Arno come muglia! ho paura" E aveva ragione, poverina, perché in tempo che si discorreva aveva già strappato in du' posti e aveva già portato via la capanna di Natalino e tutte le cataste del sor Ippolito, che ci perse quasi più di trecento monete. "Lascia piovere, lascia", gli dissi; "siamo a mezzo novembre, e se non si sfoga ora sarà peggio poi. Piuttosto, guarda, mi viene in mente una cosa: se invece di rassettare cotesta calìa tu volessi ripigliar du' maglie alla bilancia, domattina di levata vorre' andar a far du' cale a bocca di rio per vedere se mi riesce buscare un par di paoli...". Allora c'era i paoli.
Si alzò, povera donna, prese la bilancia, si messe a riguardarla, e quando io che m'ero appisolato qui nel canto mi svegliai e sentii sonare la mezzanotte, lei era sempre lì che taroccava perché la rete era tanto vecchia che per ogni maglia ripresa gli se ne strappava due. "Lascia andare, Rosa", gli dissi, "se hai rassettato le buche più grosse me n'avanza; basta che mi regga le lasche d'oncia: in quanto alla frittura minuta, se ne piglierà quando avrò qualche paolo da comprare una bilancia nova." E ci avviammo a letto.
La mattina andai. Per la strada mi fermai all'Appalto a comprare una crazia di tabacco e quella pipa... Arrivo sul puntone, do un'occhiata all'Arno: faceva paura! Monto la mi' bilancia, accendo la mi' pipetta, e tutto contento mi metto a calare lì dalla farnia vecchia dell'arginello.
Avevo già fatto quattro o se' cale quando mi parve... Dio del cielo! altro che parere! Sentii una vocina sottile sottile come d'una ragazzetta che urlava: "Aiuto, aiuto! aff... affogo!", e mi vedo venir contro, lesto come una saetta, un fagotto bigio che si svoltolava nell'acqua. Lasciare la fune della bilancia, levarmi gli scarponi e la cacciatora fu un baleno e, giù... Aaah! l'acqua era troppo ghiaccia. Per un momento mi sentii tutto come rattrappito dal granchio e almanaccavo di qua e di là, tanto per tenermi a galla, ma senza quasi sapere quello che mi facessi; quando a un tratto risento: "Aiuto, aiuto!", e ti vedo forse a un mezzo tiro di schioppo lei, in mezzo a un rèmolo che se la frullava in tondo come una penna, e che urlava da schiantare il core: "Oh, moio! oh, moio! mamma, mamma, moio!". Batone, hai sangue nelle vene? Tiralo fòri fino all'ultima gocciola perché ora è tempo.
Mi sentii una vampata al cervello; tutto il freddo che m'intirizziva si mutò in un bollore che mi pareva di prender foco, e mi sentii tornare nelle braccia la forza d'un liofante. Notavo com'un pesce e in quattro palate gli fui addosso. Lei che s'accorse d'avermi vicino, ricominciò a urlare più disperata che mai: "Salvatemi, salvatemi", e si storceva e allungava le mani per agguantarmi...».
«Vergine santissima!», esclamò la Carlotta rabbrividendo. Gli uomini tacevano e guardavano fissi la faccia del vecchio.
Nel calore del racconto, Batone si era alzato dalla sua panca e, ritto nel fondo del camino, sulla cui parete affumicata campeggiava la sua bruna figura scabra e robusta come il tronco d'un vecchio cerro, con una mimica più eloquente della rozza parola, così proseguiva il suo racconto:
«Subito che gli fui sopra: "Ferma!" gli urlai... "Ferma, ti salvo... Se non mi lasci andare, s'affoga... Per carità... ahi! ma fai male... mi strozzi!". Chi gli avesse dato quella forza non lo so. Con un braccio mi si avviticchiò al collo tanto strinta che mi faceva schizzar gli occhi di testa, e con quell'altra mano mi s'agguantò alla barba e me la tirava da farmi vedere le stelle. Per fortuna avevo sempre le braccia libere e alla peggio mi tenevo a galla.
In questo tempo la corrente ci aveva ripresi e ci volava via come fulmini. Io con quanta forza avevo, lavoravo per staccarmela, ma non c'era verso; la staccavo da una parte e mi si riattaccava da quell'altra; mi levava l'unghie dalla barba, e me le ficcava nelle gote e ne' capelli... A un tratto m'avvedo che la corrente ci portava a sbacchiare nella sassaia delle grotte! "Dio eterno! ecco la mi' ora, son morto, son morto!" E nello stesso tempo, come se fossi entrato nel ritrécine d'un mulino, mi sento svoltolato e sbatacchiato giù attraverso alle palafitte... E quella a stringermi più che mai! Nell'abbaruffarci mi s'imbrogliarono anche le gambe fra le sottane e in un batter d'occhio mi sentii tirare a capo fitto nel fondo, come se m'avessero legato una màcina al collo».
«Dio del cielo! e voi, babbo?», domandò Cencio spaventato.
«La disperazione mi prese; non vi saprei dire bene quello che feci; ma ho un barlume d'idea che gli strappai i vestiti, la morsi, mi spellai le mani e la faccia nelle pietre... A un tratto eccoci daccapo a galla! "Lasciami!" Dio eterno... nulla! Ebbi appena tempo di ripigliar fiato e daccapo giù... Quello che mi passò per la testa in que' momenti, non lo pòl sapere altro che chi ci s'è ritrovato. Mi pareva di scoppiare; sentivo un buratto negli orecchi e un frizzore negli occhi e nel naso come se mi ci fosse entrato dello zolfo. Pensai alla mi' Rosa, al mi' Cencio, al mi' cane, alla mi' bilancia, al mi' orto... Dio, Dio! che momenti, che momenti son quelli! Volevo urlare aiuto anch'io, ma tutte le volte che mi provavo mi pareva che mi tirassero una martellata nel capo, e sentivo la morte che veniva... Faccio un ultimo sforzo per liberarmi da quelle tenaglie... Angioli del paradiso! sento le braccia di quella creatura che m'abbandonano cionche...»
«Era morta?!»
«...e mi scivola via e non me la sento più accanto! Cercai, annaspai colle mani e co' piedi, ma nulla! Allora poi cominciai a sentire che non resistevo più; le forze se n'andavano, la memoria m'abbandonava e, Dio mi perdoni, non pensai più a lei; cercai di tornare a galla e mi riescì, ma rovinato e sfinito com'un moribondo, raccomandandomi l'anima perché ormai m'ero fatto perso.
A un tratto mi sento strisciar roba sul petto, l'agguanto, era un vergone di vétrice della ripa. Comincio a tirarmi su con quel po' di fiato che mi dava la disperazione quando mi vedo rammulinare d'intorno un ciuffo di capelli. Dio onnipotente! era lei, lì, a fior d'acqua, accanto a me! Agguantarla, rammucchiare quel po' di sangue che mi restava e tirarmela dietro sulla ripa fu tutt'una... Quello che feci dopo non lo so. La sera verso le sette mi trovai in casa di Bagnolino delle Steccaie sopra uno strapunto vicino al foco, e lì mi resero ogni cosa: le mi' scarpe, la cacciatora, la bilancia e quella pipa, ché avevan ritrovato tutto sul puntone, e mi dissero che era viva anche lei.»
«Ah! ma dunque?...»
«Era viva anche lei, povera Agnese!...»
«Agnese!»
«Lei; proprio lei! Che bella carità gli feci a salvarla, eh? Ma Dio c'è per tutti e avrà pensato anche a quell'anima sconsolata!», disse Batone, e ritornò a sedere in fondo alla sua panca, brontolando: «Com'è finita male! com'è finita male! e non se lo meritava... Il destino, il destino!». E per alcuni minuti rimase immobile col capo alto appoggiato alla mensola a guardare le faville che si perdevano crepitando su per il buio della cappa.
In questo tempo la Carlotta, dietro un cenno di Cencio, s'era alzata camminando in punta di piedi, e dopo aver messo sulla tavola sei bicchieri e un fiasco di vino, era ritornata al suo posto.
Batone la guardò, e:
«Carlotta, accèndimi il lume; voglio andare a letto».
«No, no!», dissero tutti insieme. «Un momento, Batone, cinque minuti soli; si vòl bere un bicchier di vino alla vostra salute, e voi dovete bere con noi, se no ci fate torto.»
E gli si accostarono porgendogli ognuno il proprio bicchiere colmo.
Batone non voleva parere, ma era commosso, e ricusò di bere finché, vinto dalla affettuosa insistenza dei giovani, prese in mano un bicchiere, lo alzò per guardarne la limpidezza attraverso al lume, ma il suo braccio tremava e nel portarselo alla bocca se lo versò mezzo giù per la barba.
«Ah! lo vedete?», disse indispettito, «non sono più bono a nulla. Lasciatemi stare, lasciatemi stare, giovinotti.»
«È allegria, Batone, è allegria! alla vostra salute!», e bevvero battendo insieme i bicchieri.
«Sì, sì; voi altri chiamatela allegria, e io la chiamo vecchiaia. Carlotta, il lume.»
Lo prese e, accompagnato dagli sguardi de' suoi giovani amici, con passo vacillante si allontanò nel fondo della stanza, grattandosi il capo e brontolando: «Eran diciott'anni che ci fumavo... E anche lei è finita... Com'è finita male! com'è finita male!».



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